giovedì 24 luglio 2014

Intervista a Gianni Biondillo: «L'Africa non esiste»

Ho avuto l’occasione di incontrare Gianni Biondillo al “Tagliere letterario”, il salottino culturale del Biografilm Festival. Il noto autore di gialli era a Bologna per la presentazione del suo ultimo libro, L'Africa non esiste (Guanda, 2014), che racconta cinque viaggi compiuti dallo scrittore rispettivamente in Uganda, Ciad, Eritrea, Etiopia ed Egitto al seguito di alcune ONG.
Il titolo è palesemente provocatorio: a non esistere è lo stereotipo di Africa diffuso dai mass media. L'Africa esiste eccome, e soprattutto esistono le persone che la abitano. L'Africa non esiste è dunque un libro contro i luoghi comuni, contro i pregiudizi, contro la malattia del «buonismo», ma anche un diario sui generis delle scoperte e degli incontri che l'autore ha sentito la necessità di condividere con noi. Con uno sguardo sensibile attento e attento, autoironia e profonda umanità, Biondillo ci invita a riflettere, mentre ci narra di quella «piccola Italia» che è Asmara, del lusso in cui vivono gli alti commissari ONU rispetto ai volontari entusiasti, dell'incantata natura africana e delle violenze inflitte a bambini soldati come Geoffrey e a spose bambine come Nighty. «Ora so che dell’Africa non sapevo niente, e che ora ne so anche meno», ha affermato lo scrittore. Non ho resistito a porgli qualche domanda.

Che significato assume per lei il viaggio?
La verità è che io sono un autore di libri di viaggio. Molti pensano che io scriva romanzi gialli. In realtà io ho sempre e soltanto scritto libri di viaggio. Il mio personaggio, l'ispettore Ferraro, in sostanza si muove per la città e racconta luoghi. Ci sono romanzi in cui i personaggi si muovono lungo lo stivale italiano. Ho fatto il giro delle tangenziali di Milano a piedi e ci ho fatto un libro. Perché io sono un architetto di formazione. Quindi il paesaggio è sempre il protagonista dei miei libri. Ovviamente ogni volta con modalità differenti. Anzi, se dovessi trovare una cosa che tiene insieme tutti i miei libri, credo che “viaggio” sarebbe la parola giusta.

Nei suoi romanzi vi è un'attenzione molto forte nei confronti della realtà e delle problematiche sociali, per esempio la disoccupazione. Penso a Cronaca di un suicidio (edito sempre da Guanda). Immagino che abbia portato con sé questo “sguardo” anche in Africa.
Certo. I paesaggi che incontro non sono solo fisici, ma anche antropologici. Sono storie di persone con i loro sogni, con le loro disperazioni. Con la vita. Ogni scrittore vorrebbe cercare di restituire vita con le parole che scrive. Poi, l'attenzione agli aspetti sociali un po' ha a che fare con la mia biografia personale. Io sono figlio di povera gente, di due analfabeti; sono cresciuto in un quartiere complesso qual è Quarto Oggiaro. Conosco molto bene le vite ai margini, nelle periferie mentali oltre che fisiche.

Certe sue idee sull'Africa sono state contraddette dalla realtà che ha incontrato?
Continuamente. Come lo sarebbe per la maggior parte degli italiani, che nulla sa di ciò che succede. Guarda solo la televisione, che è spazzatura, ed è un peccato perché potrebbe essere un mezzo di diffusione culturale straordinario. La gente non sa, anche perché basta confrontare un quotidiano italiano con un quotidiano straniero, francese o tedesco, per capire la differenza. Ho fatto questa esperienza proprio andando in Africa. Avevo fra le mani un quotidiano nazionale francese e uno italiano. Il confronto era disarmante. Dieci, quindici pagine di politica estera in quello francese, una pagina in quello italiano, e si parlava dell'America. Reportage sulle banlieues di Parigi in quello francese, dall'altra cinque o sei pagine di cronaca nera. Poi il Paese non legge. Queste sono le condizioni di partenza.

Sapeva che avrebbe scritto questo libro quando ha cominciato a partire?
Questo libro è nato strada facendo. Non sapevo, mentre stavo viaggiando, che lo avrei pubblicato. Ma tornavo e magari pubblicavo qualcosa in versione ridotta. Piano piano si è autoformato. Si è scritto da solo. Era un libro in qualche modo necessario.

Perché necessario?
Perché certi temi hanno bisogno di essere raccontati in questo momento. Ci sono ragazzi che fanno una vita infernale per raggiungere le nostre coste sapendo che possono morire, ma nessuno si chiede perché. Quando abbiamo smesso di chiederci perché, abbiamo smesso di essere umani.

Nel suo libro lei ci ricorda che la colonizzazione italiana in Africa risale alla fine dell'Ottocento, anche se nell'immaginario della maggior parte degli italiani è associata alla figura di Mussolini.
Certo. Massawa è stata la prima colonia italiana e risale alla fine dell'Ottocento. E poi c'è Asmara, dove ho visto edifici in perfetto stile sabaudo. Quando è arrivato l'Impero mussoliniano, la città è esplosa, ma noi siamo in Africa dall'Ottocento. Il fatto che ce lo siamo dimenticati mi preoccupa. Sono andato al Cimitero Italiano di Asmara, uno dei luoghi più tristi e potenti che mi sia mai capitato di incontrare, perché ci sono storie di italiani che hanno cercato un sogno senza sapere che, attraverso il loro sogno, stavano facendo del male a qualcun altro. Però hanno portato le loro speranze. È un posto che colpisce veramente. Anche il fatto che ci sia l'erba un po' alta, che il cimitero sia un po' abbandonato... Quanti italiani sono sepolti in terra straniera e noi nemmeno lo sappiamo?

Cosa l'ha particolarmente colpita in Africa, al limite dello shock?
È difficile scegliere. Però ho passato una giornata insieme a un ex-bambino soldato del Nord dell'Uganda che mi ha raccontato la sua calata all'inferno. E lì capisci quanto l'uomo possa essere perverso. Prendere un bambino di nove anni, mettergli in mano un'arma, sterminargli la famiglia davanti agli occhi... E questo è accaduto in Uganda e sono convinto che potrebbe accadere domani in qualunque parte del mondo. Non è una “cosa africana”.

Una storia o un incontro che non ha raccontato?
Ce ne sono tantissimi. Per esempio l'incontro con un medico ugandese. All’ospedale in cui lavora avevano regalato un macchinario. Lui me lo fa vedere quasi dispiaciuto e mi sono stupito. Lui mi spiega che quel macchinario, acquistato con una raccolta fondi in provincia di Bergamo, non serve lì. Servono altre cose, per esempio delle viti o delle lampadine, perché, se si rompe qualche cosa, non sanno come aggiustarla. Per l'Africa il buonismo è una malattia. Nelle note del libro poi accenno al viaggio sulle isole Dahlak di una bellezza straziante, con la più grande biodiversità al mondo... Molte di queste cose, me le tengo nel cuore. Gente incontrata per strada...

Non si è mai trovato in situazioni “al limite”, di quelle in cui ai giornalisti viene chiesto di tacere?
Continuamente. Ma io non sono un giornalista e me ne frego. E poi io sono un narratore. Non vado alla ricerca della notizia, ma dell'umano.

Ha ascoltato storie che ha pensato fossero troppo forti per il lettore e che per questo ha scelto di non inserire nel suo libro?
No. Non mi autocensuro mai in questo senso.

Dal punto di vista letterario, cosa le hanno dato i suoi viaggi in Africa?
Ho potuto scrivere un romanzo. Senza i miei viaggi in Africa I materiali del killer non sarebbe mai nato. Poi questo libro è narrazione. Ho usato la lingua del narratore, non del giornalista. Non è un giallo, non ci sono morti, colpi di scena, storie d'amore. Ma ci sono colpi di scena, storie d'amore...

Cosa pensa della cosiddetta “letteratura migrante” o “della migrazione”?
Finché si continua a chiamarla letteratura migrante, è letteratura di serie B. Quando metti qualcosa dentro un genere, l'hai già declassato. Così come non credo che esistano i gialli. Secondo me, esistono libri belli e libri brutti, scritti bene o scritti male. Se domani mattina uno scrittore di origine africana scrive un bel libro in italiano, ha scritto un bel libro e quindi ha scritto un libro che per la letteratura italiana è importante.

Ci farebbe qualche nome?
Non vale, perché poi faccio torto agli altri. Però esistono talenti veri. Anzi, in questo momento, data l'esperienza potente che hanno sulle loro spalle, possono raccontarci come noi non sappiamo più raccontarci. Però quello che conta è che si scriva bene. La patente di “negro” o di emigrato o di sofferente o di povero non basta.

Quindi lei non adotta lo sguardo di chi ritiene la letteratura della migrazione di serie B perché non sarebbe arricchita dalla nostra tradizione letteraria.
Non sono interessato a questo modo di ragionare perché secondo me non ha senso. Poi è un po' come la storia degli immigrati di seconda generazione. Io sono figlio di un campano e di una siciliana. Cosa sono? Un milanese di seconda generazione? No, sono un milanese. Tutti i compagni di scuola delle mie figlie non hanno mai visto il Perù o la Thailandia o lo Sri Lanka. Sono nate a Milano. Questi sono non-problemi. Igiaba Scego, che è di origine somala, per me è una scrittrice italiana e basta. Non mi pongo il problema che sia di origine somala o che abbia il colore della pelle nero.


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