sabato 1 marzo 2014

Visioni - "Un buco nel cielo", "Siamo tornati" e "The American wall", tre cortometraggi di denuncia dal Festival bolognese "Visioni Italiane"

 
Sono felice di aver potuto assistere ad alcuni dei cortometraggi presentati nell'ambito di Visioni italiane, festival nato nel 1994 per iniziativa dell'autorevolissima Cineteca di Bologna e dedicato a cortometraggi, documentari, lavori sperimentali o dal formato irregolare, spesso realizzati da autori giovani che avrebbero nessuna o pochissima visibilità sul territorio nazionale.
Sabato 28 febbraio, Visioni italiane mi ha regalato Un buco nel cielo, Siamo tornati e The American wall. Soprattutto, per la verità, il primo.
È stato un bel viaggio nel corto. La durata? Un'ora circa. Ma dieci minuti sanno essere intensi e indimenticabili, se ben girati. Sono così stata trasportata dalla Somalia alla Roma delle occupazioni abusive, fino al confine tra il Messico e gli Stati Uniti. E ho attraversato lotte e speranze, sempre all'insegna della denuncia.

 
Come quella contro la violenza dell'infibulazione praticata sulla pastorella somala Alifa in Il buco nel cielo. La giovane conduce la sua vita in un piccolo villaggio circondato da una natura desolata e arida, spazzata da un vento impietoso che fruga incessantemente la terra e gli uomini che la abitano: solleva vortici, instancabile, senza sosta, lasciando dietro di sé coltri di polveri con cui si impara a convivere.
Alifa conosce solo quell'angolo di mondo in cui le è capitato di nascere. Più in là, un orizzonte che non ha nulla dell'infinito: opprime e chiude; è insuperabile, almeno per lei. Lo ha attraversato la sua nonna, però, ora persa in una città di colori, caos, sporcizia. La nonna che, insieme alla madre, ha trasmesso ad Alifa gli unici insegnamenti a cui la giovane possa riferirsi, legati alla tradizione rigida di una comunità patriarcale
La pastorella comunica solo con le sue caprette. Ha anche imparato a percepire i loro bisogni e le loro condizioni. È dunque spesso sola, e come tale viene ritratta. Le altre donne, invece, le vediamo sempre insieme, in un gruppo solidale già fatto schiavo.
Il cortometraggio, uscito nel 2013 e realizzato da Antonio Tibaldi e Alex Lora, segue Alifa mentre cammina sulla sua terra deserta; sempre offuscato, il sole non splende mai. La vediamo avanzare nel vento, di spalle o tre quarti; la telecamera ne inquadra i piedi, instancabili e forti, e le mani, abili e robuste. Frammenti di un corpo destinato a essere ben altrimenti ferito e violentato.
E arriva infatti il giorno in cui una bella tenda colorata viene issata, proprio per la giovane, su un campo ricoperto dall'onnipresente, invadente sabbia. Alifa ha paura: sa che dovrà “sedersi” sul tappeto steso nella tenda. Noi, però, non vediamo Alifa in quella tenda. Sentiamo solo la sua voce gentile, sempre fuoricampo. Vediamo e sentiamo invece le donne che, fuori, cantano inni rituali. Dentro, vediamo soltanto un viso magro e sfocato che, in un ralenti terrificante, si gira verso Alifa, e anche verso di noi. Grida e silenzio, per chi non ha parola se non grazie a chi si fa portavoce. Come Antonio Tibaldi e Alex Lora.
Comunque, Alifa sapeva che «quando Allah creò la terra, la terra alzò gli occhi e vide un buco vuoto al di sopra». Alifa sapeva del buco del cielo: glielo avevano insegnato. Ora è arrivato il momento di guardarlo.
Il Buco nel cielo è un cortometraggio intenso perché arte e denuncia, spessore metaforico e abilità registica si intrecciano e alimentano a vicenda. Giocato su contrapposizioni tra mondi e prospettive (città e villaggio; uomini e donne; donne e Alifa; comunità e solitudine; integrità e frantumazione dei corpi; presenza e assenza; parola e silenzio; terra e cielo) e sulla forza della metafora e dell'ambiguità (basta pensare al titolo, oltre alla mancanza di qualunque riferimento all'infibulazione, la cui pratica deve essere inferita dallo spettatore consapevole), Il buco nel cielo è un autentico atto di testimonianza e denuncia, raccontato con la delicatezza e il tatto regalati anche dalla voce narrante di un'Alifa viva e condannata. 

Possono invece rivendicare i loro diritti i giovani romani di Siamo tornati (2013) della regista Yasmin Fedda. Casualmente incappata nello spazio autogestito di S.CU.P. (Sport e Cultura Popolare), ne è rimasta affascinata.
Sullo schermo scorrono immagini ridondanti di giovani che boxano. Qui c'è vita e speranza, sembra vogliano dirci con la loro insistenza. Vediamo una biblioteca «ben fornita», come la definisce il boxeur rimasto senza lavoro e che ha realizzato, insieme ad Action, il progetto di creare un centro sportivo e culturale dove non c'era nulla, solo un edificio demaniale abbandonato, ma ora trasformato in attività imprenditoriale e centro ricreativo.  Ovvio che a questo punto un privato si faccia avanti, pronto a comprare l'immobile a prezzi stracciati. Solita speculazione edilizia. E un muro si alza per impedire l'entrata agli abusivi (o utilizzatori intelligenti di spazi pubblici dimenticati e insieme operatori sociali?). Ma “siamo tornati”, dicono loro. E lo ribadiscono abbattendo quello che non è che uno dei tanti muri innalzati contro i progetti di una società che si vorrebbe più civile.

Lotta e speranze ora ostinate ora destinate alla rassegnazione, quando non alla morte, vivono invece i messicani davanti all'American wall che si innalza per un lungo tratto lungo la frontiera tra il loro paese e gli U.S.A. Intorno a un muro reale e metaforico è infatti costruito il documentario del 2012 di Francesco Conversano e Nene Grignaffini.
Muro che è il personaggio-leitmotif ossessivo la cui vista, inesorabile e prepotente memento, interviene a cadenzare il documentario. O a calare il sipario sulle speranze dei messicani? A troncare i loro racconti, come tronca le loro esistenze? O come pausa necessaria di fronte all'arroganza e ignoranza di certi ambienti americani, non troppo a lungo tollerabili?
Il corto ci presenta infatti una successione di scene sulle vite e i tentativi dei migranti, sulla grettezza traboccante di slogan degli sceriffi e dei patrioti sempre all'erta sul confine, sugli interventi dei Samaritans preoccupati solo di salvare vite.
Volti su volti in primo piano che si incidono nella memoria, come quel muro, nemmeno tanto alto ma così difficilmente valicabile, tra la realtà messicana, tutta luci notturne, strade non asfaltate, discariche a cielo aperto, baracche accatastate su pendici, e gli orizzonti ampi dell'Arizona pattugliati da tristi personaggi che si sentono eroi a difesa della grande madre-America.
Ma The American wall è più un documentario in senso stretto che un film. Potrei anche definirlo un documentario non riuscitissimo. Troppo didascalico per  essere capace di comunicare un dramma. Non si fa mancare nemmeno luoghi comuni e quel troppo di retorica che guasta. È lontana l'incisività del Buco nel cielo. Il confine tra documentazione, denuncia e film d'arte è sottile. Molto sottile.

P.S. Stavo dimenticando: alla serata erano presenti attivisti di Human Rights Nights, che organizzerà a sua volta un festival a Bologna dal 9 al 18 maggio. Intanto perché non visitare il sito? Le possibilità di partecipare alle attività dell'associazione no profit sono davvero tante.



 

Nessun commento:

Posta un commento