martedì 11 febbraio 2014

"Golda ha dormito qui" di Suad Amiry: voci palestinesi da Gerusalemme

Sono palestinesi le voci che ci raggiungono attraverso le pagine dell'architetta e scrittrice Suad Amiry, cresciuta tra Amman, Damasco, Beirut e Il Cairo, e ora residente a Ramallah. E palestinese è la stessa autrice di Golda ha dormito qui (Feltrinelli, 2013, traduzione di Maria Nadotti). Sono voci che ci giungono in frammenti, come sottratte l silenzio a cui presto ritornano, grazie al riserbo di una scrittrice che, con tatto e delicatezza, non può o non vuole indugiare sulla sofferenza bruciante e privata dell'espulso dalla propria casa e dalla propria terra.
Del resto ha sempre voluto far ridere, Suad Amiry, che è riuscita a concederci istanti di ironia anche in questo romanzo duro. Di certo non ha ceduto al voyeurismo morboso di chi ama immergersi nella disperazione e devastazione altrui. Del popolo palestinese, in questo caso. Come si è sempre rifiutata di ricorrere a toni aspri e ambigui, rivelatori di un rancore malcelato o di un'ansia più o meno pressante di risarcimento.
Suad Amiry conduce fino a noi voci palestinesi attraverso lo spazio che ci separa da quella complessa e per molti versi assurda realtà che è Gerusalemme, anzi Gerusalemme est (ebraica) e Gerusalemme ovest (palestinese): zona già segnata da scontri, violenze ed espropriazioni, e martoriata dopo la guerra dei Sei Giorni (1967). Fu allora, infatti, che Israele decise di ampliare la zona ebraica della Città Santa, espandendola in una sorta di semicerchio verso sud, est e nord; un semicerchio che tra l'altro includerà la Old City e molti villaggi palestinesi, cresciuti nel frattempo fino a divenire veri e propri agglomerati urbani.
Quale fu il destino degli arabi che risiedevano in quel semicerchio allargato? L'espulsione dalle proprie abitazioni e l'abbandono della terra in cui erano nati e avevano trascorso, fino a quel momento, l'esistenza. Rifiutata ogni richiesta di tornare a risiedere legalmente nelle dimore di famiglia, data la legge del 1950 stilata dopo la Nakba del 1948. Nakba: parola araba che significa “catastrofe” e con cui i palestinesi denominano gli eventi del '48, che per gli israeliani furono la loro guerra di Indipendenza. Bene, in base alla succitata legge, che mirava a ripulire i territori occupati da ogni presenza etnica palestinese, i legittimi proprietari arabi furono dichiarati “assenti presenti”: esistenti per lo Stato di Israele ma inesistenti quanto a diritti di proprietà.
È di questi present absentees (di ceto medio-alto), ora ostinatamente resistenti, ora spezzati, ora traumatizzati, che Suad Amiry si fa portavoce in Golda ha dormito qui. Libro in cui per la prima volta la stessa autrice, nonostante il dolore mai superato, riesce ad accennare per lacerti alla sua privatissima esperienza.
Anche Suad Amiry è infatti un'absentee, come il grande architetto palestinese Andoni Baramki, i cui edifici costellano l'intera Gerusalemme, e che costruì la propria dimora personale dedicandola alla moglie Eveline. Grazie alla scrittrice, lo seguiamo mentre, la bocca allargata in un sorriso fermo ed enigmatico, tiene stretta a sé una misteriosa cartella rossa in cui, si scoprirà, ha accuratamente custodito i documenti che attestano la proprietà della sua casa. Quella casa di cui tenta invano di riappropriarsi e che, nell'attesa, non riesce a non visitare ogni giorno, valicando da clandestino il confine tra le due Gerusalemme per «trovarsi di fronte all'amata», sorriderle e «sfiorare la sua superficie morbida e le sue curve ondulate».
Tra le epigrafi di Golda ha dormito qui si legge: «Mi è stato detto: “Casa è dove sono”. Ce la metto tutta, ma non sempre ce la faccio». Andoni Baramki non ce la fa, come non ce la fa Huda, l'altra grande voce che si solleva, energica e furente, dalle pagine di un libro che fonde realtà storica e rielaborazione romanzesca. Non ogni giorno ma ogni settimana Huda avverte la compulsione a rivedere l'abitazione per cui ha visto suo padre piangere, e a volte ne trafuga oggetti, decisa a rischiare la prigione da cui in effetti entra ed esce a più riprese. E c'è poi Suad, che dentro di sé alimenta quella serpeggiante «depressione silenziosa» che ha sempre evitato di affrontare.
Voci si susseguono a voci, perché «la ferita è ancora aperta». Lo scrive la stessa Amiry: «Mentre i palestinesi ce la mettono tutta a dimenticare quando dovrebbero ricordare, gli israeliani ce la mettono tutta a ricordare quando dovrebbero dimenticare». Ma è anche vero che «i palestinesi rifiutano di essere vittime».
Rimane che le case di proprietà palestinese sono ora abitate da israeliani. Anche «Golda ha dormito qui», in una di queste case. Lo ricorda Huda. Golda è la Meir che fu per Ben-Gurion «il miglior uomo al governo» e per il popolo israeliano una madre. Per Suad Amiry è l'Israele prepotente e bugiardo che ha occupato una terra non sua e amputato uno Stato.
Specchio dell'umanità palestinese della diaspora, la scrittura di Suad Amiry accosta frantumi di ricordi, rapide inquadrature (veloci, perché non indulgano nella contemplazione di un dolore da viversi con riservatezza e dignità), foto di edifici e ritratti di famiglia. Sono molti gli spazi bianchi: gli attimi del silenzio solidale, di quel tempo sacro in cui si lascia spazio all'espressione inviolabile di una sofferenza che non si può dire, del sipario generoso che cala su momenti di vita laceranti. E ci sono poi i versi, che interrompono la prosa o si organizzano in componimenti che cantano, rendendolo sopportabile, il dolore della ferita che Suad Amiry ha sempre temuto di guardare e sentire.
Anche per questo credo che valga la pena leggere Golda ha dormito qui. Per riconoscere alla scrittrice il merito di aver affrontato «l'occupazione della mente e delle emozioni» generata dal ricordo che tanto la spaventava. Ma col suo canto Suad Amiry, mettendocela tutta, ci è riuscita. E ha sigillato il suo libro-testimonianza con una coraggiosa apostrofe alla sua Palestina («Ci lascerai mai liberi?»), seguita da una foto di una famiglia raccolta davanti a una casa palestinese, ennesimo memento. Perché non si dimentica. Si resiste e si testimonia.
 

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